lunedì 7 settembre 2009

SITTING ON THE PARK BENCH: Una biografia emotiva dei Jethro Tull

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Avete mai provato ad ascoltare i Jethro Tull su una panchina del parco?
Credo sia il posto migliore per incontrare Anderson e i suoi amici ubriaconi!
Ruoti dolcemente il volume fino ad 8 o magari 9, ti distendi guardando gli alberi e gli scorci di cielo, e rimani li` a sentire quel pazzo di Ian che ti racconta tante storielle sconce, idilli di saggezza infinita. Le storie si alternano al suo flauto che e` la sua seconda voce, alla chitarra di Martin Barre che graffia come un gattaccio randagio, e all’atmosfera decadente e pomposa del resto della band, quel sound cosi` unico tipicamente Jethro. E anche se il seme del loro sound e` presente in tutti i lavori della loro lunga carriera, ogni singolo pezzo e` legato ad un determinato stato d’animo.
Le canzoni dei Jethro Tull continuano a rievocare dentro di me centinaia di ricordi di persone, luoghi e momenti, e continueranno a farlo.
Nella loro gigantesca discografia esistono queste perle quasi invisibili che all’improvviso riappaiono e ti colpiscono, come la Cheap Day Return che ho appena ascoltato. L’album “Aqualung (71’)” e` un bel riassunto di quello che i Jethro sono.
Per curiosita` provo a far riattaccare la vecchia Locomotive Breath…….
……ecco il piano di John Evan……
……la chitarra di Martin…… ……e si parte!
C’e` poco da dire; la macchina funziona!
I Tull sono una band che puoi amare o odiare, o ti e` dentro o ci sei proprio fuori.
La loro musica e` un’altalena di controverse sensazioni sul filo di un flauto che sembra parlare una lingua ancestrale, imprecando a destra e a sinistra. Poi alla fine si acquieta e tutto sembra rinascere come in Wind Up, dolce conclusione di un disco terrificante.

Come raggiunsi il loro mondo?
In parte li conoscevo gia` dai vecchi vinili di famiglia, ma la mia grande curiosita` nacque quando mi ritrovai tra mani quel fatidico “Thick as a Brick (72’)”.
Ero curioso di entrare dentro questa geniale canzone di 44 minuti e volteggiarci dentro come solevo fare con Supper’s Ready dei Genesis. Ma in verita` rimasi colpito solo dai primi dieci minuti, e solo in un secondo tempo rivalutai l’opera intera con tutte le sue fughe e ripetizioni. Un disco che e` storia, non c’e` dubbio.

…so the wise man don’t know
how it feels, to be thick as a brick.

E visto che l’ho appena messo su e mi sono aperto una birra, credo che smettero` di scrivere per un po’……

Le “Canzoni del Bosco” (Songs from the Wood – 77’) e “Stormwatch (79’)” appartengono ad un particolare momento dei miei 18 anni e sono la mia colonna sonora del libro IT. Le sue interminabili pagine sono volate via al suono di pezzi come Cup of Wonder e Orion, mentre i brani Pibroch e Dark Ages ancora riescono a trascinarmi dentro quell’agghiacciante mondo di King come facevano un tempo.
Puo` sembrare strano aver affiancato questi due dischi ad un libro del genere, ma tutto e` successo per caso, ed a volte e` proprio per caso che si verificano le giuste combinazioni. Questa miscela di emozioni e musica e` talmente personale che non riesco ad esprimerla a parole, ma quello strano fraseggio tra flauto e tastiera in Hunting Girl per esempio… e` pura follia, ve lo assicuro!
Poi c’e` da ricordare le dolci Flying Dutchman e Home. Quest’ultima fu scoperta solo piu` tardi da un mio caro amico, e vi giuro che la dice proprio giusta. E` semplicemente il sogno di un ritorno a casa, e magari e` tardi e sei in auto con “i ragazzi” mentre l’alcol sta svanendo, e allora ascolti questo pezzo e per un attimo rivivi quel sogno.
Infine due parole su Dun Ringill.
Un mio amico mi disse che gli ricordava un nome elfico, e da allora la considero una canzone di Rivendell, una di quelle che scriveva Bilbo.

In the wee hours I’ll meet you
down by Dun Ringill

“Heavy Horses (78’)” lo abbracciai in vinile solcandolo ripetutamente sulla title track e sulla ballatissima Moths. Riascoltandola adesso in digitale rievoca le danze di strane figure nel bosco, un pugno di gente scomposta ebbra di tutto, che felicemente si lascia trascinare dai suoni di un piccolo stereo portatile. Moths e`, insieme all’inedita Coronach (20 Years Of Jethro Tull – 88’), uno dei miei pezzi piu` intimi del reportorio Jethro.
Impossibile poi scordarsi della bellissima No Lullaby, altro preziosismo di questo album che merita possedere solo per la foto della band sul retro della copertina.
Ma l’album del cuore e` senz’altro il “Minstrel in the Gallery (75’)”, autentica macchina del tempo sonora che ti trasporta in un mondo di miti e leggende, tra bizzarri folletti e menestrelli rockettari.
La title track la suoni un po’ dappertutto; nelle corse in auto, seduto davnti al fuoco con gli amici, nelle letture piu` visionarie…

…the minstrel in the gallery…

E poi ecco che attacca l’acustica di Ian per la ballata del paradiso nordico.
Cold Wind To Valahalla veniva suonata sempre insieme a Moths e Kelpie nelle danze folli di un tempo. Dall’euforiche vibrazioni di Cold Wind si passa alle suggestive note di Requiem e One White Duck, due delle espressioni piu` alte di tutta la discografia di quel pazzo menestrello scozzese.
Questo non e` un album che ha scritto la storia della musica, ma ha senz’altro scritto un bel pezzo della mia storia.

There’s a haze on the skyline,
to wish me on my way……

Facciamo ora un passo indietro e parliamo dei primi lavori della band, quelli decisamente piu` blues. Io che a quel tempo cercavo soluzioni tra il prog e il folk in chiaro stile “Minstel”, rimasi ovviamente un po` estraneo alle sonorita` di quei primi dischi. In un secondo momento riuscii comunque a penetrare dentro quel sound.
“This Was (68’)” e “Stand Up (69’)” sono due perle di chiaro stampo fine anni 60’, rilegate ad un periodo in cui la voglia di fare musica era diventata contagiosa.
Mi risento adesso quella Some day the sun won’t shine for you, un gran bel pezzo!
Poi c’e` la mitica Song for Jeffrey, un delirio a 45 gradi alcolici come quando ti e` impossibile star fermo con tutta quella roba che hai in corpo.
In Stand Up il sound dei ragazzi si raffina ma rimane piu` o meno quello.
Belle le A New day Yesterday e Nothing is Easy, veri classici del disco.
Due parole per raccontare di We Used to Know, che ricorda Hotel California semplicemente perche` a quel tempo gli Eagles facevano da spalla ai J.T. e allora venne loro un idea……
……un idea che ha reso la band americana piu` ricca dei 30 anni di carriera dei nostri. Ma cosi` e` la storia della musica.
Al concerto di Brighton del 95’ Anderson racconto` questo aneddoto e magari avrebbe davvero offerto da bere a tutti noi spettatori come ci disse, se avesse incassato quanto gli Eagles. Un bel peccato, ma la London Pride me la feci comunque!!!
Mi capita adesso di riascoltare Reason for Waiting, una bella song dove la presenza dell’orchestra apre le porte alle future sinfonie degli anni 70’.
“Benefit (70’)” non ha mai girato granche` alla corte del mio occhio laser. Si tratta di un lavoro del primo pianeta Jethro, un suadente blues infestato di flauti e chitarre graffianti. Bella l’apertura ed un buon livello tenuto attraverso l’intero lavoro.
Forse non ci sono entrato bene dentro questo disco, ma d’altra parte ci sfugge tanta di quella roba quando si diventa cosi` dannatamente voraci di musica.
Come il “A Passion Play (73’)” che mi sto sparando in cuffia in questa giornata piovosa. Ce n’e` d’intensita` in questi 45 minuti di puro prog in stile Anderson e Co.
Fughe prepotenti si susseguono, intermezzate da soffici stacchi di piano e folli fraseggi del menestrello. Siamo in piena euforia progressiva anni 70’. E vai cosi`!!
“War Child (74’)” e “Too Old…(76’)” non hanno lasciato molte tracce indelebili nella mia disordinata memoria musicale, anche se ne riconosco in entrambi il valore.
Nel cuore c’e` solo il posto per Bunlge in the Jungle, Too Old to Rock’n’Roll, Too Young to Die, e quel minuto e mezzo di magia intitolata Only Solitaire.
Dolcissima la From a Deadbeat to an Old Greaser che riascolto adesso mentre cerco un po’ di sonno.
Grande il “Living in the Past (70’)”, esemplare compilation a cavallo dei due primi periodi della band. La title track e` una classica che ti fa` viaggiare…

Happy and I’m smiling
Walking miles to drink you water.
You know I love to love you
And above you there’s no other……

Col vinile di “Broadsword (82’)” scopro i Tull piu` elettronici dei primi anni 80’.
Segue l’album “A (80’)” e precede “Under Wraps (84’), ed e` decisamente il piu` valido di questo strano periodo dei nostri.
Bella la Slow Marching Band, chiaramente in vecchio stile, ma degne di nota sono anche Flying Colours e Seal Driver. Ma sinceramente credo che la miglior cosa di questo disco sia la copertina.
Del precedente “A” riascolto la vecchia Black Sunday, un pezzo che amavo scatenare dai miei speakers nelle tediose serate dei miei 18 anni. Un bel rock, dopotutto.
Riguardo ad “Under Wraps” devo confessare di non averlo mai ascoltato per intero.
Onestamente non so proprio cosa farmene di quel sound……
Ammetto pero` che la title track in chiave acustica del live “A Little Lite Music (92’)” non e` davvero niente male.
Ma fortunatamente, con l’avvicinarsi di un nuovo decennio, i nostri cari Jethro ritrasformano il loro sound presentando un rock-blues piacevole anche se non proprio esaltante.
L’Isola di Roccia (“Rock Island – 89’”) lo suonai numerose volte ancor prima di mettere le mani sui classici della band. Avevo una Tape che mi bevevo volentieri, ma allora ero solo un quindicenne ignaro della dimensione. Quando anni dopo riascoltai il digitale ritrovai subito l’intesa con i pezzi The Whaler’s Dues, Rock Island, Another Christmas Song e la tenera Strange Avenues.
E mentre ne parlo mi rimetto ad ascoltare……

Money speaks……

Ma ecco il colpo di scena della storia della musica. Ma questa non e` affatto la storia della musica, questa e` la storia della mia dimensione, un universo dove contano le emozioni e non quello che dicono gli altri. Si perche` in “Crest of a Knave (87’)” riscopro il pezzo piu` intimo di tutto il repertorio J.T..
Si tratta della lunga e dolce ballata Budapest, suonata piu` volte insieme ai soliti cospiratori oppure da solo, in mille luoghi e semplicemente adesso, mentre scorro queste righe.
Io li chiamo “Peak Points” e sono quei punti del brano in cui le sensazioni si concentrano e si liberano dentro di te. Il solo di flauto centrale di questo pezzo ne e` un chiaro esempio. Budapest e` senza dubbio un’importante pietra miliare del mio percorso attraverso la dimensione.

It was a hot night…
…in Budapest!

Per il resto il “Crest” e` un piacevole album con le sue belle Farm on the Freeway e Mountain Man e qualche altra cosina.
Del frizzante “Catfish Rising (91’)” mi piace a volte riascoltare il tenero blues di Rocks on the Road, magari insieme ad un altro paio di facili “Tunes” di questo facile album. E` uno di quei dischi da bersi insieme a una birra ghiacciata in giardino, durante una giornata troppo calda per poter pensare alla musica seria. A volte un ascoltatore ha bisogno solo di questo.
Nel 93’ esce la raccolta di inediti “Nightcap” della quale amo ricordare una citazione che e` rimasta indelebile nella mia mente. Ma piu` che una semplice citazione, e` una sacrosanta verita`...

…a small cigar can change the world…

Un pezzo alla vecchia maniera, quel “Piccolo Sigaro”.
Quando poi due anni piu` tardi mi arriva alle orecchie “Roots to Branches (95’)”, mi scopro allo stesso tempo deluso e confuso. E` probabilmente l’album piu` bello degli anni 90’, ma non ci riesco proprio ad entrare dentro.
Il blues degli altri lavori e` confinato solo in un paio di pezzi, e per il resto si passa da un rock sferzante ad un bel prog molto personale. Spero di entrarci un giorno, o magari adesso che me lo sto riascoltando…

…Rare and precious chain……
…Harry’s still here!!

Di “Dot Com (99’)” non posso dire granche`.
E` un album che ho ascoltato poco e in alcuni punti sembra rimanere sulle sonorita` del precedente. Quasi come se Anderson stesse raschiando il fondo della pentola della sua creativita`, i J.T. continuano a regalarci ottime vibrazioni senza allontanarsi troppo dal loro mondo ed esporsi scioccamente al mercato.
A distanza di decenni dal loro periodo d’oro, provo sempre una certa curiosita` per i nuovi lavori e progetti in uscita. Dopotutto e` stata la band che piu` ha rappresentato in passato il legame d’amicizia con le persone a me piu` care, la giusta colonna sonora delle avventure di un gruppo di scalmanati. Per questo la discografia dei Tull e` una preziosa eredita` del mio passato, un tesoro di linee vocali e soli di flauto che continua a regalarmi sensazioni uniche, i ricordi di mille momenti magici.
E per questa ragione reputo il vecchio Ian non tanto un idolo quanto una specie di amico immaginario. Gli idoli non esistono nella musica. Esistono personaggi eccentrici nei quali e` bello riconoscersi, ma solo per scoprirsi differenti e a nostro modo speciali. Credo quindi sia giusto ringraziare questi personaggi per averci indicato la strada per trovare noi stessi.
Per quanto riguarda me, devo ringraziare quel vecchio ubriacone che siede ancora sulla panchina e continua a raccontare storielle sconce.

GRAZIE IAN.

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