giovedì 3 settembre 2009

SEMPLICEMENTE YES!



Questa e` una strada affascinante, una di quelle piene di curve e tornanti che si inerpicano sulla grande montagna, e poi ridiscendono esplorando terre magnifiche e sconosciute. Questa e` la strada che ci conduce attraverso la storia di una band che ha plasmato infinite immagini dentro di me, il gruppo creatore di quella forte vibrazione che viaggia ancora nel tempo e che si chiama semplicemente Yes.
Stagioni colme di interminabili sinfonie, movimenti veloci e trascinanti esaltati da inimitabili assoli. Un universo impervio, ma una volta che ci sei dentro senti il bisogno di perditi tra le sue meraviglie.
E quale miglior modo di perdersi dentro l’universo Yes se non ascoltando il loro quarto album “Fragile (72’)”, autentico masterpiece del rock.
Ricordo di aver considerato questo disco una delle espressioni piu` alte della musica, e risentendo adesso la vecchia Roundabout riesco a giustificare la mia esaltazione di quel periodo cosi` intensamente prog. Oggi che la mia prospettiva sulla dimensione si e` ampliata, non riesco piu` a mettere un disco sopra tutti gli altri, ma a volte mi piacerebbe tornare ad avvolgermi solo del vecchio rock progressivo, il genere che mi ha svezzato nutrendomi di puro latte sinfonico scremato di quattro quarti.

Fragile rievoca le follie Brufordiane in apertura di Heart of the Sunrise, una sequenza ritmica impressionante che ho sempre cercato invano di imitare usando delle bacchette improvvisate. E` un’apoteosi di fughe e movimenti, fino all’avvento della magica voce di Jon. Semplicemente immensa, semplicemente Yes.

Sharp, Distance, how can
the wind with its arms all around me…

Poi ricordo un’estate caldissima degli anni 90’, io disteso sul letto con la pelle bruciata dal sole mentre dagli speakers si scatenava il delirio di “Close to the Edge (72’)”, un ascolto che diventava viaggio. Attraverso i suoi 19 minuti camminai nel mondo del tramonto, carezzato da luce e colori mai visti, e un vento leggero e profumato che recava all’orecchio il canto di Anderson.
Se Fragile trafisse il mio cuore, Close to the Edge m’inceneri` il cervello.
Mai piu` i ragazzi inglesi riuscirono ad espremersi a questi livelli.
Dei loro primi lavori mi piace a volte riascoltare la vecchia Survival o la fuggente No Opportunity…, e spesso considero di riaffrontare meglio le sonorita` piu` easy di “Yes (69’)” e “Time and Word (70’)”, due dischi mai del tutto esplorati.
Forse potrei incontrare qualche bella sorpresa, chissa`.
“The Yes Album (71’)” e` stato uno di quei vecchi vinili di famiglia che non ho mai capito. Lo facevo girare sul piatto lasciando scivolare la puntina sopra i suoi numerosi graffi di storie passate, ma i suoi suoni erano impenetrabili per la mia tenera eta` di quindici anni. Ma il tempo e` passato e gli orecchi si sono abituati a tante e diverse vibrazioni, cogliendo anche l’essenza di questi sei splendidi brani.
Dovrei proprio ricordarli tutti, ma mi limitero` alla grandissima Starship Trooper e la coinvolgente I’ve seen all good people, due pezzi da brividi. Siamo nel 1971 ed i nostri si stanno avvicinando al loro apice. E si sente, ci puoi scommettere i timpani.
Ma dopo i due capolavori di cui ho gia` parlato, i cinque ragazzi inglesi si cucinano il cervello e se lo servono a colazione scambiandosi il piatto. Ne esce fuori quell’ambizioso “Tales From Topographic Oceans (73’)”, quattro pezzi di venti minuti l’uno e tanta voglia di strafare. Risultato? A mio parere grandissimo, e non m’importa cosa puo` dire la critica che comunque la dice sempre strana.
La Revealing Science Of God e` uno scorcio di paradiso sonoro. E` legata al ricordo di un loro concerto durante l’Open Your Eyes Tour, quando attaccarono quell’interminabile fantasia di note dopo gia` due ore di performance. Grandiosa!
Non sono da meno le altre tre, lunghi viaggi introspettivi del periodo piu “mistico” della band. Una grande opportunita` di mettere in mostra nuovi suoni.
Il successivo “Relayer (74’)” e` un disco per chi ama complicarsi la vita, uno di quei lavori da possedere per colorare la propria collezione, con la sua bellissima copertina e suoi solchi mai totalmente afferrabili. Ascolti i tre lunghi pezzi e poi dici: - Splendidi, ma devo risentirli bene…-
Poi scopri che piu` li riascolti e piu` ti domandi cosa ti sei perso per strada.
Non certo lo straordinario finale di The Gates of Delirium, quella dolcissima Soon che ritroviamo da sola nella raccolta “Yesstory (91’)”.
E dai che accelero fino al diciasettesimo minuto e la riascolto……

Arrivano gli anni dei progetti solisti e in primo piano metto quelli del vecchio Ricky Wakeman. Il capellone biondo ci esalta con il suo “Journey to the Center of the Earth (74’)”, regalandoci alcuni dei piu` travolgenti assoli di hammond degli anni 70.
Notevoli anche gli altri due lavori, il precedente “The Six Wives of Henry VIII (73’)” e il successivo “Myths and Legend Of King Arthur (75’)”, ma il viaggio insieme al signore delle keys ci conduce inevitabilmente verso il centro della terra.
Il sognante “Olias of Suhillow (76’)” di Jon Anderson non riesce a coinvolgermi, e forse aspetta una nuova era progressiava per essere riapprezzato. Per adesso e` sullo scaffale in attesa insieme ad altri.
Ma torniamo alla storia della band che risorge alla fine dei mitici anni 70’ e ci consegna tre album intimemente molto diversi tra loro.
C’e` il bel “Going For The One (77’)”, con le sue dolci ballate Wonderous Story e Turn of the Century, per chiudere con la lunga Aweken che ci regala nuovi preziosismi di alta scuola della musica. E` un’altra di quelle Sinfonie-Yes di grande intensita`, che nella loro lunghezza salgono lentamente verso il Peak Point centrale, per esplodere poi in un finale travolgente.

Aweken gentle mass touching!!!

“Tormato (78’)”, con sonorita` vicine al lavoro precedente, e` comunque un figlio della morte degli anni d’oro. E` un disco che non lascia segni, e la bella Onward mi piace risentirla nel live Keys to Ascension.

Arrivano dunque i “fantastici” anni 80’, il momento piu` buio della musica colta e probabilmente l’epilogo piu` giusto per tanta gente che aveva poca voglia di rinnovarsi, gruppi che lasciavano stagionare il proprio sound, tirando fuori ogni anno un disco uguale all’altro.

Pochi riuscirono a superare la batosta, ma gli Yes seppero tener testa al cambiamento. Con una nuova formazione, per la prima ed unica volta priva di Anderson, fanno uscire “Drama (80’)”, un capitolo a se della storia del prog. Infatti la sua sonorita` cosi` unica lo rendera` un esempio per molte band del nuovo movimento di rock-sinfonico degli anni 90’. Per definirlo userei due aggettivi: divertente e intenso. Ma i nostri amici inglesi non finiscono di stupirci e nel 1983 ritornano nuovamente trasformati con lo storico album “90125”. La formazione e` nuova, il sound e` nuovo, la copertina e` nuova, la sorpresa distrugge il fan e lo fa` risorgere…

…e oltretutto il successo e` mondiale. Owner of a Lonely Heart e` uno di quei pezzi che puoi finirti lo stereo a riascoltarlo, ma non ti verra` mai a noia. Ma l’acclamata hit che ancora oggi viaggia nell’etere di molte radio non e` la sola magia dell’album. Tutto il disco e` un fuoco giallo spruzzato nella notte, dalla bellissima Changes a Leave It, da Hold On a quel capolavoro di Hearts. Sicuramente uno dei lavori piu` belli dell’intera decade.

“Big Generator (87’)” segue la stessa strada del precedente e per questo non mi dice granche`. Le idee di 90125 erano grandiose, ma secondo me dovevano appartenere a quel disco soltanto.

Una cometa attraversa il cielo e siamo alle porte degli anni 90’. Esce “Anderson Bruford Wakeman Howe (89’)”, ovvero i vechi Yes senza Squire. Si torna alle splendide copertine di Roger Dean e si riaffronta il prog in chiave piu` moderna. Risultato: un disco da brividi. La Brother of Mine e` un pezzo che mi travolge ogni volta che posso lanciarlo attraverso gli speakers,. Non e` altro che una semplice canzoncina di 10 minuti, ma sono i maestri a suonarla.

…long lost brother of mine…

Poi ci sono le due ballate Birthright e The Meeting, puri intrecci di note che sgretolano il muro della realta`. Era bello sognare insieme all’acustica di Howe e alla voce da elfo di Jon.
Ma il disco non finisce di certo qui. Ce n’e` di musica da sparare in questo CD, ve l’assicuro, ce n’e` di vibrazione…

…in the meeting of your love…

“Union (91’)”, essendo un progetto di tutti i membri della “Yesstory”, non ha proprio una precisa direzione sonora e quindi non mi fu possibile rilegarlo a un qualche stato d’animo. Quando lo suoni sembra piu` una compilation che un album ufficiale.
Bello il drammatico inizio di Without hope…, frizzante l’atmosfera di Saving my heart, e piacevoli tutti gli altri giochi di note.
Ricordo la fremente attesa dell’uscita di “Talk (94’)”, che raccolse critiche terribili ma mi penetro` completamente accompagnandomi per un lungo periodo.
Ogni brano ha scritto in modo indelebile una forte emozione in me; la gioiosa The Calling, la dolce I’m Waiting, la dura Real Love e tutte le altre. Ma il vero capolavoro e` Endless Dream, un “sogno infinito” di 15 minuti carico di colore e movimento.
Nulla di nuovo bolle in pentola, ma il profumo e` eccellente.
E che dire poi dei due successivi doppi live/studio “Keys to Ascension I (96’) & II (97’)”? Dischi cosi` ti rendono fiero di essere un fan di un gruppo di cinquantenni.
In un periodo dove non usciva un bel niente di veramente elettrizzante, trovarsi circondato dalle preziose armonie di That, That Is, Be The One e Mind Drive ti fa pensare: “ma allora sono ancora loro gli indiscussi imperatori delle sinfonie rock!”
E forse lo sono davvero. Prendi per esempio quell’intro di acustica tipo Howe Gentle-Touch in That, That Is; quasi 5 minuti di volteggi su una terra di sogno, per aprire la strada al resto della band che ha proprio una bella intesa. Oppure la calda linea vocale di Jon in Mind Drive, sempre ottimamente intrecciata a quei tocchi di chitarra del solito Steve. E poi vai con un bel solo del vecchio Ricky, sopra il basso di Squire che fa paura.
Poi ci sono i vechi pezzi dal vivo, antiche fiamme che si uniscano alle nuove scintille in un grande spettacolo di fuoco.
Peccato che la band, in diversa formazione, volle spezzare quel nuovo gioco progressivo col susseguente “Open Your Eyes (97’)”, un disco che sembrava avere quasi intenti commerciali. Potrei non averlo ascoltato bene, o forse semplicemente i nostri non avevano grandi idee. Sta di fatto che dal vivo, durante il tour che seguiva questo lavoro, furono comunque eccezionali. I vecchiardi suonarono per quasi tre ore, e le emozioni le porto ancora dentro di me.
Concludiamo cosi` questo lungo viaggio sul pianeta Yes con “The Ladder (99’)”, album che ritorna alle sinfonie progressive di Keys.
Belle la track d’apertura, la colorata Lighting Strikes, la dolcissima If Only You Knew e il finale di New Language.
Bravi ragazzi, continuate cosi` per altri 30 anni!
Non sarei tanto sorpreso se un ipotetico Anderson ottantenne continuasse a tirar fuori roba del genere, o magari qualche altro bel lavoro solista come “Toltec (96’)”.
E magari continuera` ad incantarci con quella sua voce da elfo, quella voce che ha contraddistinto il sound di questa macchina musicale chiamata Yes.
Ecco che usciamo da questo meraviglioso universo di note, guardiamo dietro di noi e… …cosa vediamo?
Vediamo la pulsazione, il segno di qualcosa di vivo che continua ad espandersi in questa fantastica dimensione chiamata musica.
E intanto il nostro stereo continuera` ad aspettare nuovi amici.

FONTE: Colony of Slippermen

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