domenica 6 settembre 2009

LA VILLETTA DI PAPÁ



Lacrime di sangue sulla faccia della luna. Un ululato lontano squarcia il disegno delle tenebre, mentre arranco fuori dal seminterrato della villetta di papà, quella sulle colline.
Mi accendo una sigaretta. Ho le mani lorde ma non ci bado. Le cime degl’alberi si muovono nel riverbero delle luci artificiali, quelle dell’autostrada vicina. Autisti notturni sfrecciano a meno di duecento metri da dove mi trovo, del tutto ignari del macello appena compiuto.
Il sapore della sigaretta è buono. Ho appoggiato volutamente le dita alle labbra. Ho gustato il lordume mischiandolo al tabacco. Ferro e humus.
Perché uccido? È una domanda alla quale ho provato di rispondere spesso. Non è facile. È un po’ come chiedersi perché si respira. È una domanda sciocca. Spesso me la pongono anche le mie vittime, un attimo prima che la festa abbia inizio.
David e Luana. Si chiamavano così quelli di stasera. Il pretesto era scontato, un threesome a casa mia, tutto organizzato in chat; la coppia e lo sconosciuto. Adoro fare la parte dello sconosciuto…
Nell’email specifico ai due che è meglio se vengo loro incontro. La strada per raggiungere la villetta è dissestata e ci si può arrivare solo con un fuoristrada. Li vado a prendere al casello dell’autostrada, lasciamo la loro auto in una stazione di servizio chiusa, poi andiamo tutti quanti su con il mio cheerokee. Sono davvero carini, trentacinque lui, appena ventisette lei. Quando imbocchiamo lo sterrato, quello che porta alla villetta, avverto la prima erezione. Incomincia sempre così.
Parlo con loro ma la mia mente è altrove. Temo di aver dimenticato a casa il seghetto. Sarebbe un bel problema. Potrei risolvere con l’accetta, ma quella fa sempre troppi schizzi. E poi chi glielo dice a papi…
Quando entriamo in casa mi fanno i compimenti per l’arredamento, poi li faccio accomodare in salotto. Servo del brandy e della cola. Lei non beve.
Davanti al camino parliamo del più e del meno. Lei gestisce un piccolo negozio di scarpe, lui è istruttore di golf. Io dico loro che faccio lo scrittore, una bugia che mi viene sempre bene.
Ma non siamo lì per parlare. Dieci minuti dopo Luana me lo sta succhiando sul divano, mentre il suo compagno incomincia ad eccitarsi. Il fuoco scoppietta come un dannato, in sottofondo ho messo del lounge, ma si sente appena. Percepisco invece i mugolii di lui e i risucchi di lei.
David si avvicina. È accaldato dal fuoco e dalla situazione È pronto a prendere la sua compagna da dietro, mentre lei continua a darmi piacere. Ma non glielo permetto.
La beretta esplode in faccia all’istruttore di golf. Pezzi di cervello vanno a sfrigolare sui tizzoni del camino. Sento la mascella di Luana tendersi sul mio membro. Si è accorta della sorpresina. La prendo per i capelli e la sollevo. Lei urla. In faccia le leggo un terrore alieno, e me ne felicito, perché ne sono l’artefice.
Ordino al telecomando di alzare il volume dello stereo. Lei può urlare quanto vuole. Il ritmo è incalzante, c’è anche un bel sax.
Luana è piccola. Ci mette tutta la forza che ha in corpo, prova a divincolarsi, ma io le afferro una mano, la giro, la immobilizzo. Un attimo dopo è mia prigioniera. La festa può incominciare.
Nel seminterrato tutto è pronto. Purtroppo i miei dubbi vengono confermati. Non c’è il seghetto. Sorrido alla mia complice e condivido con lei il mio disappunto. Lei è imbavagliata. Mi risponde sbattendo le palpebre e soffocando un gemito. Come la capisco…
Luana ci mette venticinque minuti a morire. Fa bene il suo dovere. Rantola, defeca, schiuma. Insomma, tutto il repertorio. Io provo nuove tecniche. Alcune mi lasciano soddisfatto, altre meno. A fine opera mi convinco che ho bisogno di nuovi strumenti.
La notte è tiepida. La sigaretta è a fine. Mi perdo nel disco lunare. Anch’io vorrei ululare insieme a quel lupo. Come lo capisco…
A valle distinguo le luci della jeep, puntualissima. Sale lentamente verso la villetta, sballottata dalle buche e dalle pietre più grosse. Le vado incontro.
Si ferma accanto al cheerokee.
«Ciao papi!»
Papà mi guarda con un interrogativo negli occhi.
«È tutto pronto» lo rassicuro io.
«Bene…» risponde. È fiero di me.
«Di sopra bisognerà passare lo straccio…»
«Non ti preoccupare figliolo. Lo facciamo insieme, più tardi.»
Lo vedo sparire nel seminterrato.
Buon’appetito papà.

Jonathan Macini


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